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PADRI CHE UCCIDONO I FIGLI PER VENDETTA, PER PUNIRE LA EX
Se ne parla da anni, almeno dal 2010. Le tragedie consumate da padri che uccidono i figli per vendetta, per punire l’ex moglie o la compagna sono in aumento. Il trend in crescita è stato segnalato già nel 2014, anno in cui il 47enne Roberto Russo di San Giovanni La Punta (Catania) ha accoltellato a morte la figlia 12enne Laura tentando di uccidere anche l’altra figlia, la 14enne Marika. La moglie si era trasferita a casa dei suoi genitori dopo aver scoperto che lui l’aveva tradita.
Nel 2014, gli esperti scartarono l’idea del raptus. Per Claudio Mencacci, medico psichiatra, presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia ed ex presidente della Società italiana di psichiatria, considera sbagliato pensare che questi padri passino di colpo dall’amorevole quiete famigliare all’horror in pochi minuti, come se nelle loro menti passasse un tornado di follia improvvisa. Non si pensa mai che questo tipo di violenza si accanisce sui soggetti più deboli, fragili, indifesi. i più esposti come i figli. Si parla mai di qualcuno colto da ‘raptus’ che assale un uomo grande e grosso? No.
I massimi esperti concordano nell’affermare che non si tratta di raptus. Vogliono punire la madre ed affermare la propria mascolinità.
PADRI CHE UCCIDONO I FIGLI PER ARRIVARE ALLA MADRE: IL PARERE DEGLI ESPERTI
Circa 6 anni fa, la criminologa britannica Elizabeth Yardley ha definito “padri sterminatori” i padri che eliminano i figli per poi, spesso, suicidarsi. Succede a seguito di rotture familiari (separazioni, divorzi). Non riescono a fare i conti con la rottura della famiglia, indipendentemente dal loro grado di istruzione o professione. Temono di perdere ciò che li fa sentire uomini: la loro mascolinità è sotto minaccia. Uccidendo i figli cercano perversamente di recuperare il controllo su di loro e sulla madre, la loro ex. In quel momento, nella loro testa, gridano al mondo: “Guarda come sono potente“.
Questi uomini assassinano i figli per punire le madri; i figli sono sostituti delle loro ex mogli, una rappresentazione simbolica molto più vulnerabile. Il padre si accanisce sui figli per arrivare alla madre che lo ha lasciato e farla soffrire per sempre. “Non li rivedrai mai più“… La vittima da colpire è lei.
Altre volte, i padri uccidono per sentirsi liberi dai legami familiari, quindi tutto il contrario. Si uniscono ad una nuova compagna e vogliono sbarazzarsi della famiglia.
Uomini deboli, incapaci di affrontare la situazione, che sfogano la rabbia in un unico, definitivo lampo finale. Questi padri uccidono dopo un lungo percorso di rabbia, pianificazione e frustrazione: fino al momento del delitto, riescono a mantenere un’immagine di assoluto controllo e normalità. Non tollerano il loro fallimento, hanno una fragile consapevolezza di sé. Quando non si suicidano dopo il delitto, si sentono meglio, risollevati, non provano alcun senso di colpa né disperazione, sono lucidi, nessuna reale coscienza del dolore.
L’arma del delitto è affilata, tribale. Con un coltello uccidono i figli tagliando loro la gola o trafiggendoli mentre dormono. Vogliono danneggiare l’aspetto delle loro vittime – ha spiegato la criminologa Yardley.
In altri casi, viene usata una pistola, un fucile oppure il padre getta un figlio da una finestra, da un cavalcavia, da un ponte.
IL ‘CANCRO’ DEI RUOLI DI GENERE È UN AFFARE SOCIALE
“Non li rivedrai più“. Un messaggio del genere dice molto. Ti distruggo la vita, ti creo il deserto permanente. E’ una vendetta che va anche oltre il femminicidio perché supera la morte fisica della persona. La donna è condannata irrimediabilmente. Una sorta di ergastolo senza fine.
Potere, possesso, vendetta, lucida premeditazione del delitto (con tanto di messaggio scritto) non sono sentimenti e gesti tipici dei malati mentali.
Il padre sterminatore non pensa alla sofferenza dei figli, li vede come oggetto, un giocattolo, non come persone.
I figli non sono più soltanto vittime di violenza assistita: vengono scelti come bersagli, uccisi usati come oggetti di proprietà. Il concetto “O mia o di nessuno” viene esteso ai figli che non devono sfuggire alle regole del padre, ad una vita lontano da lui.
E’ peggio del femminicidio: tragedie del genere annullano la madre ed azzerano completamente la famiglia.
E’ tempo che i media la piantino di dipingere gli uomini che uccidono i propri figli come se fossero loro le vittime, i depressi, i folli, i disperati. Sono assassini che spesso premeditano e pianificano il delitto e che, quando non si uccidono, non provano alcun senso di colpa.
Basta con titoli come “il dramma dei padri separati”. Soprattutto quando uccidono per vendetta nei confronti della ex partner, bisogna chiamarli col loro nome: assassini. Nessun folle gesto, nessuna depressione (peraltro diagnosticata dal giornalista di turno, prima ancora che da uno psichiatra).
Con la rottura della famiglia, il padre perde il suo ruolo, il controllo sulle dinamiche familiari, e si dimostra assolutamente incapace di accettare il cambiamento dei ruoli di genere tradizionali della famiglia. Al cuore degli omicidi in famiglia c’è sempre la perdita di controllo del dominio ‘mascolino’, anche in assenza di precedenti episodi di violenza domestica. Se lei si allontana dal suo tradizionale ruolo di donna/madre sottomessa, deve essere punita in un modo o nell’altro. Questo ragionamento non ha niente a che fare né con la depressione né con la follia ma con la violenza di genere.
Il ‘cancro’ dei ruoli di genere predefiniti, del vecchio concetto di capofamiglia, è un affare sociale, prima che privato.
I TRE EPISODI DI CRONACA DIFFICILI DA DIMENTICARE
Tra i tanti casi di padri che uccidono i figli per vendetta, sono in particolare due le vicende che resteranno indelebili nella nostra mente.
Cisterna di Latina, 28 febbraio 2018: il carabiniere 43enne Luigi Capasso ferisce con un’arma da fuoco la moglie e uccide le due figlie di 8 e 13 anni. Dopo ore di trattative, si suicida.
Margno (Lecco), 27 giugno 2020. Il 45enne Mario Bressi, in piena notte, strangola a mani nude i gemelli Elena e Diego di 12 anni. Invia un messaggio alla moglie da cui si stava separando: “Non li rivedrai mai più“. Poi, si suicida gettandosi dal ponte della Vittoria a Maggio di Cremeno.
Il più recente fatto di cronaca nera risale a pochi giorni fa (20 dicembre 2020) a Trebaseleghe (Padova). Il 49enne Alessandro Pontin, separato da 5 anni, ha ucciso i figli di 15 e 13 anni accoltellandoli alla gola, poi si è suicidato con la stessa arma. Sono stati svegliati in piena notte dalla fredda lama del coltello, hanno tentato disperatamente di fuggire prima di essere uccisi sotto i fendenti del padre sterminatore. Vivevano con la madre poco distante, ma erano ospiti dal padre per qualche giorno.
Il rapporto tra i due ex coniugi era finito da tempo, lui aveva una nuova compagna.
La moglie lo aveva denunciato a maggio perché non pagava gli alimenti sanciti con il divorzio, poi lui aveva saldato il conto in sospeso e lei aveva ritirato la querela.
In passato, l’ex moglie Roberta Calzarotto l’aveva segnalato ai Carabinieri per comportamenti aggressivi. Roberta ha dichiarato che “era un violento“, perciò ha voluto separarsi da lui. L’ha denunciato ma nessuno le ha creduto. “Voleva colpire me”. I ragazzi, secondo quanto spiega la madre, non erano contenti di andare da lui. Al padre non importava nulla di loro.
Prima del delitto, l’omicida/suicida ha lasciato un biglietto: “Voglio essere cremato, spargete le mie ceneri”. Poche righe, asciutte, nessuna parola di scuse o di addio, ma semplici disposizioni su cosa fare del suo corpo.
IL COMMENTO DI VALERIA VALENTE
Fin troppo spesso le istituzioni non riconoscono o negano i presupposti della violenza. Giudici, avvocati, psicologi, medici, Forze dell’Ordine, assistenti sociali non sempre sono preparati a riconoscere i segnali che portano all’evoluzione della violenza.
E, così, aumentano i casi di padri che si vendicano sulle ex accanendosi contro i figli e togliendo loro la vita. I padri violenti vanno fermati in tempo.
Una volta di più, una madre che denuncia e prova a proteggere i figli non ci riesce perché non viene creduta.
Valeria Valente si chiede perché alla richiesta di aiuto delle donne venga sempre e comunque anteposto il principio della bigenitorialità, anche quando in pericolo c’è la vita di minori. La falla culturale nel sistema di protezione delle donne sta nell’incapacità di dare credito alle loro denunce.
Il numero di bambini uccisi in ambito di separazione, divorzio o violenza domestica è allarmante ed è in costante crescita. In Italia, negli ultimi 20 anni, sono oltre 500 i bambini ammazzati in famiglia (uno ogni 10 giorni). Di questi, oltre un terzo dei figli muore per mano di un genitore violento o in fase di separazione.
Uno dei problemi principali in termini di tutela dei minori riguarda i tempi lunghi della Giustizia, quando la denuncia di una donna viene ascoltata. I tempi si sono allungati ancora di più con l’emergenza Covid: tra la richiesta di separazione e la prima udienza passa almeno un anno. In un anno può succedere di tutto sia alla donna sia ai figli.
Un bambino può essere affidato ad un genitore violento o pericoloso. I Tribunali non comunicano, non interagiscono tra loro. Può capitare che un genitore sia condannato per violenze sui minori dal Tribunale penale dopo anni di affido disposto dal Tribunale ordinario. Il bambino, nel frattempo, continua a subire violenza. I bambini, in gran parte dei casi, non vengono ascoltati bensì trattati da oggetti da spartire tra genitori separati.