
In questo articolo:
GIORNALISTI DA EDUCARE ALLA VIOLENZA DI GENERE, MANIFESTO DI VENEZIA
L’esigenza di rinnovare il codice narrativo sugli episodi di violenza contro le donne è urgente. I media devono imparare a raccontare le storie con protagoniste donne vittime di violenza senza giustificare gli assassini attraverso un ‘romanticismo’ morboso che poco c’entra con i criminali. La formazione di giornalisti da educare alla violenza di genere (che aderiscano al Manifesto di Venezia) è una priorità in Italia.
L’Ordine nazionale dei giornalisti corre ai ripari: di recente, ha organizzato un corso di formazione che, per la prima volta nel nostro Paese, obbliga i cronisti a rileggere i media tradizionali e digitali ed a superare l’arretratezza dell’informazione nell’ambito della violenza di genere. L’Ordine obbliga a rivedere il linguaggio escludendo pregiudizi e stereotipi culturali fuori luogo, poco rispettosi dell’identità e dignità delle donne. Di questo corso se ne parla dal mese di agosto scorso.
Il corso online è tenuto da Monia Azzalini, Pina Nalli e Silvia Garambois.
Monia Azzalini è una ricercatrice responsabile del settore Media e gender dell’Osservatorio di Pavia. Pina Nalli è ordinaria in Sociologia presso l’università di Bologna. Silvia Garambois è giornalista nonché presidente dell’associazione Giulia (acronimo di Giornaliste unite, libere e autonome). Tre donne eccezionali per altrettante lezioni che educano i giornalisti vecchio stampo (e vecchia stampa), tuttora ancorati a linguaggi e termini da cancellare nei media.
Azzalini, Nalli e Garambois basano le loro lezioni su monitoraggi dei media tradizionali e digitali. Da questi monitoraggi si scopre che il mondo dell’informazione è arretrato di fronte alla narrazione della violenza di genere.
GIORNALISTI DA EDUCARE ALLA VIOLENZA DI GENERE: PERCHÉ
I giornalisti commettono errori quando trasformano la storia di violenza in notizia, spesso sfociando nel sensazionalismo. I cronisti collocano la storia nella solita cornice del ‘romanticismo della violenza‘, come lo chiama Pina Lalli. Di romantico in queste storie drammatiche non c’è niente.
Lalli, che dirige anche il centro di ricerche CoMEDIAs (Comunicazione, media, spazio pubblico) ha monitorato per diversi anni 4 quotidiani cartacei e media digitali. Attraverso questo monitoraggio ha raccolto dati sconfortanti.
Ha scoperto che non tutti gli episodi di femminicidio pare abbiano dignità di notizia per i professionisti dell’informazione. Nel periodo monitorato da Pina Lalli, solo il 63% delle donne vittime di femminicidio ha avuto risonanza (sul cartaceo soltanto il 37%).
I media sono attratti dal femminicidio quando i protagonisti sono molto giovani (gli anziani interessano per il 27%), la storia è particolarmente feroce, brutale e spietata, quando c’è l’opportunità di raccontare un giallo.
Il delitto viene spacciato per passionale secondo una triste routine.
LE PAROLE SBAGLIATE E VIETATE QUANDO SI PARLA DI VIOLENZA
Le parole sbagliate del cronista sono ‘raptus di gelosia’, ‘follia d’amore’, ‘perdita di controllo’ (o della testa), ‘amore malato’. Diagnosi inquietanti che poco c’entrano con la realtà e che giustificano il criminale. Come ha ricordato tante volte Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria, il raptus non esiste, l’amore non uccide, la gelosia non deve giustificare la sottomissione e la violenza che annienta un essere umano.
Il codice penale italiano all’art. 90 stabilisce che “gli stati emotivi e passionali non diminuiscono l’imputabilità”.
L’altro errore del giornalista da educare alla violenza di genere è la prevalente attenzione sull’aguzzino, sull’uomo violento o femminicida: si scava nella sua vita come se si stesse scrivendo un romanzo.
La vittima, in compenso, viene stigmatizzata, colpevolizzata (vittimizzazione secondaria) se non denuncia.
Il linguaggio giornalistico non deve, in nessun modo, oltraggiare la vittima di violenza come pure le foto. Dal 2016, ad esempio, è vietato scrivere ‘baby-squillo’ quando si descrive una vicenda di prostituzione minorile: l’uso di un simile termine viola la Carta di Treviso.
Non dimentichiamo che l’informazione, i media, rappresentano un veicolo di comunicazione potente e, allo stesso tempo, pericoloso in quanto potrebbe influenzare la valutazione processuale del reato da parte della magistratura.
Con il corso di formazione obbligatorio organizzato dall’Ordine nazionale dei giornalisti è iniziato un cammino verso il corretto linguaggio da utilizzare nel pieno rispetto della dignità delle vittime di violenza.
La Comunità europea, l’Osservatorio di Pavia, Giulia e Fondazione Bracco stanno lavorando per la realizzazione di una banca dati online che ha un nome: “Cento donne contro gli stereotipi”.
FORMAZIONE PER I GIORNALISTI DAL 2014 AD OGGI
L’Ordine nazionale dei giornalisti ha organizzato un corso di formazione obbligatorio per rivedere il linguaggio e la corretta narrazione della violenza contro le donne. L’ha fatto di recente ma, in realtà, la formazione per i giornalisti in questo senso risulta obbligatoria dal 2014.
La stessa Convenzione di Istanbul (art. 17) responsabilizza i media incoraggiando ad elaborare specifiche linee guida e norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza di genere rafforzando il rispetto della loro identità e dignità.
Esistono testi di riferimento per i giornalisti.
In data 30 dicembre 2016, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha condiviso le Linee Guida della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ Guidelines for Reporting on Violence against Women). Questo documento si ispira alla Dichiarazione dell’Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993.
Nel 2017, è stato redatto e varato il Manifesto di Venezia elaborato da Cpo Usigrai, associazione GiULiA e sindacato veneto.
Tutti questi documenti sono punti di riferimento per la formazione di giornalisti da educare alla violenza di genere ed al corretto linguaggio da utilizzare, che includono indicazioni sugli errori da non commettere.
MANIFESTO DI VENEZIA PER GIORNALISTI DA EDUCARE ALLA VIOLENZA DI GENERE
La violenza di genere è una violazione dei diritti umani tra le più diffuse e letali al mondo. Viola i diritti umani: lo dichiara la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013.
Condanna la violenza domestica ed ogni forma di violenza sulle donne. L’uguaglianza è lo strumento più potente per prevenire la violenza sulle donne, mentre gli stereotipi ed i pregiudizi culturali sessisti e maschilisti non fanno altro che alimentarla. L’informazione è cruciale ed è per questo che la Convenzione richiama il giornalismo alle proprie responsabilità.
I giornalisti devono rispettare la dignità delle donne insieme alla verità dei fatti. La loro narrazione di cronaca non deve cadere (e scadere) in descrizioni morbose né insistere con dettagli superflui. L’informazione non deve sfociare nel sensazionalismo.
I giornalisti che hanno firmato e aderito al decalogo Manifesto di Venezia, presentato il 25 novembre 2017 a Venezia, si sono impegnati ad informare in maniera attenta, corretta e consapevole sul fenomeno della violenza di genere. Informare e descrivere la cruda realtà senza inquinare la narrazione con stereotipi e pregiudizi. Questo è l’impegno che hanno assunto.
Il Manifesto di Venezia non è bastato: ogni giorno, sulla stampa appaiono immagini, termini e titoli ‘sbagliati’.
L’IMPEGNO DEI GIORNALISTI CHE HANNO ADERITO AL MANIFESTO DI VENEZIA
I giornalisti che hanno aderito al Manifesto di Venezia si impegnano a:
– utilizzare un linguaggio appropriato anche nei casi di violenza su donne e minori evitando (anche involontariamente) espressioni denigratorie, irrispettose, lesive della dignità femminile e termini fuorvianti come ‘raptus’, ‘follia’, ‘gelosia’, ‘passione’ in riferimento a crimini dettati dal possesso e dall’annientamento;
– evitare l’uso di segni ed immagini che riducono la donna ad oggetto del desiderio e stereotipi di genere;
– evitare di suggerire attenuanti o giustificazioni all’autore di femminicidio con motivazioni del tipo ‘depressione’, ‘tradimento’, ‘difficoltà economiche’, ‘perdita del lavoro’, ecc.;
– raccontare il femminicidio dal punto di vista della vittima, non del colpevole;
– usare il termine ‘femminicidio’ per i delitti compiuti sulle donne in quanto tali senza sottovalutare la violenza fisica, psicologica, economica, culturale, giuridica;
– raccontare tutti i casi di violenza (anche quelli compiuti su prostitute e transessuali) mettendo in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi ed uscire dalla violenza e dare la parola a chi le supporta;
– evitare che ci siano violenze di serie A e B in rapporto a chi esercita e subisce violenza;
– sottrarsi ad ogni forma di sfruttamento a fini commerciali della violenza sulle donne (maggiore audience, più clic, ecc.).
IL DOVERE DI RACCONTARE LA VERITÀ SENZA GIUSTIFICARE AUTENTICI CRIMINALI
Il Manifesto di Venezia è nato dall’idea e dal lavoro della Commissione Pari Opportunità, della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Cpo Usigrai (sindacato dei giornalisti Rai), Sindacato Giornalisti Veneto e dall’associazione Giulia Giornaliste.
E’ un manuale contenente linee guida da seguire per raccontare la violenza di genere attraverso i mezzi di informazione.
Da tre anni, il Manifesto di Venezia sottolinea l’importanza e il dovere di rispettare la dignità delle donne vittime di violenza attraverso un’informazione corretta (parole, immagini).
Le parole uccidono e l’informazione inadeguata, data attraverso parole sbagliate, pregiudizi e narrazioni distorte, possono rappresentare una seconda violenza per le vittime. Da qui, l’obbligo per i giornalisti di assumersi la responsabilità di ciò che scrivono, del linguaggio che usano. Il cronista deve raccontare la verità senza travisare i fatti.
Certe narrazioni condizionate da una cultura patriarcale rivittimizzano le donne, le colpevolizzano per le violenze subite.
Non dimentichiamo che gli stessi giornali italiani sono ambienti il cui clima resta pesantemente sessista: l’85% delle giornaliste ha subito molestie.
Certe narrazioni che usano termini come ‘delitto passionale’ spostano crimini efferati sul piano del romanticismo. Di fatto, ne falsano il movente ed anticipano le sentenze con pregiudizi che giustificano l’autore delle violenze.
Non si uccide per ‘troppo amore’, ‘per gelosia’ o perché ‘provocati da atteggiamenti sbagliati della partner’. Chi uccide è un criminale. I termini, le parole, la narrazione non devono trasmettere certi messaggi fuorvianti e stereotipati o cronache morbose che rischiano di giustificare autentici criminali.