
CENTRI ANTIVIOLENZA IN ITALIA: INDAGINE ISTAT-IRPPS DEL CNR E NON SOLO
L’indagine Istat e Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (Irpps) del Cnr fotografa la situazione dei Centri antiviolenza in Italia: i dati raccolti ed analizzati si riferiscono all’anno 2017.
Si tratta del primo censimento sui centri antiviolenza e sulle case rifugio, strutture che si occupano da anni di donne maltrattate da mariti e partner, minacciate, aggredite, vittime di stalking.
Questa ricerca è stata effettuata sulla base di accordi con il DPO (Dipartimento per le Pari Opportunità) allo scopo di monitorare prestazioni e servizi offerti dai centri alle donne vittime di violenza. Controllo ed analisi dei dati hanno l’obiettivo di migliorare la copertura sul territorio e la competenza del personale.
Non a caso, l’indagine rientra fra le azioni previste dal Piano Strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne.
Quali dati emergono da questa ricerca?
Qual è, al di là delle statistiche, la realtà nei centri antiviolenza e nelle case rifugio?
In questo articolo:
CENTRI ANTIVIOLENZA IN ITALIA: I RISULTATI DELL’INDAGINE ISTAT-IRPPS 2017
Complessivamente, in Italia sono 338 i centri antiviolenza ed i servizi specializzati che operano a supporto delle donne vittime di violenza.
A questi centri e servizi, nel 2017, si sono rivolte almeno una volta 54.706 donne (in media, 172 per ogni centro/servizio), di cui il 59,6% (32.632 donne, circa 103 per ogni centro/servizio su 316 che hanno risposto al questionario) ha, in seguito, intrapreso un percorso di uscita dalla violenza entrando nel programma di protezione.
Le strutture del Nord Italia hanno accolto 143 donne in media, circa il doppio rispetto al Sud (58).
Le donne straniere che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza sono state 8.711 (in media, 28 per ogni servizio o centro antiviolenza).
Dei complessivi 338 centri e servizi antiviolenza, 253 sono riconosciuti dalle regioni e segnalati al DPO come finanziabili perché aderiscono all’intesa Stato-Regioni sottoscritta nel 2014. I restanti 85 centri e servizi non aderiscono all’intesa.
Nel 2017, 255 centri/servizi antiviolenza (il 75,4%) hanno ricevuto un finanziamento pubblico mentre 58 (il 17,2%) sono stati finanziati da privati. Sei centri/servizi (1,8% sul totale) hanno ricevuto fondi da parte della UE per progetti specifici.
Mediamente, si registrano 1,2 centri/servizi per ogni 100 mila donne dai 14 anni in su. Si tratta di un dato medio che risulta uniforme tra Nord e Centro e più elevato al Sud (1,5 per 100 mila donne residenti).
Il tasso medio su 100 mila donne viene superato in Abruzzo (2,3), a Bolzano (2,3), Molise (2,1) e Campania (2,0).
Al contrario, in Sicilia, Basilicata e Lazio il numero dei centri scende risultando di poco inferiore a 1 (16 centri in ogni regione o provincia autonoma).
Soltanto la Campania (51) e la Lombardia (47) insieme accolgono il 30% di tutti i centri/servizi antiviolenza esistenti nel nostro Paese.
SERVIZI E CENTRI ANTIVIOLENZA IN ITALIA: FUNZIONANO?
Dall’indagine Istat e Irpps risulta che:
- Prestazioni essenziali come colloquio di accoglienza, orientamento e accompagnamento, consulenza psicologica e legale sono ottime, presenti in oltre il 90% delle strutture;
- E’ buona l’offerta di servizi quali accompagnamento all’inserimento lavorativo e autonomia lavorativa (83,4% che sale al 96,5% per i servizi non aderenti all’intesa Stato/Regioni). Buona anche la disponibilità di alloggi sicuri come le case rifugio a indirizzo segreto e di primo livello (82% che sale all’85,7% nei centri antiviolenza aderenti all’intesa Stato/Regioni);
- Risultano discrete la presenza di servizi di accompagnamento all’autonomia abitativa (73,4% che scende a 65,6% nei centri aderenti all’intesa Stato/Regioni) e la diffusione di centri che eseguono la valutazione del rischio (77,5% che scende a 63,5% nei centri non aderenti all’intesa);
- Si rivelano problematiche l’accoglienza in emergenza o pronto intervento (63,6%) a causa di una minore presenza al Centro Italia come pure le prestazioni rivolte a minori e donne migranti (60-65%). Risultano meno diffusi nei centri antiviolenza aderenti all’intesa Stato/Regioni il supporto ai figli minorenni vittime di violenza assistita (50%), il sostegno alla genitorialità (62,5%) e la mediazione linguistica-culturale (49%).
QUAL È IL LIVELLO DI ACCESSIBILITÀ DEI CENTRI ANTIVIOLENZA IN ITALIA?
Sulla base della Convenzione di Istanbul, un centro o servizio antiviolenza, per poter garantire un supporto efficace alle donne vittime di violenza, deve risultare reperibile ed accessibile al massimo.
Qual è il livello di accessibilità dei centri/servizi antiviolenza nel nostro Paese?
L’indagine Istat risponde pubblicando i seguenti risultati della ricerca:
- 280 centri/servizi (82,8%) rimangono aperti più di 5 giorni alla settimana. Risultano maggiormente presenti i centri del Nord e quelli aderenti all’intesa Stato/Regioni;
- 231 centri (68,3%) garantiscono la reperibilità h24 soprattutto al Sud (122). E’ anche vero che esistono altri strumenti di reperibilità (numero verde, segreteria telefonica);
- l’88,5% dei centri/servizi antiviolenza aderisce al 1522, il numero nazionale antiviolenza di pubblica utilità, soprattutto al Nord e tra i centri accreditati dalle Regioni;
- il 77,2% dei centri/servizi fa parte di una rete territoriale, specie al Nord e nelle strutture riconosciute dalle Regioni;
- oltre l’80% delle strutture garantiscono la privacy delle donne che chiedono aiuto assicurando loro segreto professionale, riservatezza e anonimato.
In merito all’anonimato ed alla riservatezza dei dati, c’è da segnalare la recente guerra del codice fiscale, il NO alla schedatura delle donne vittime di violenza da parte del Cadom e di altri centri. Cosa significa?
CENTRI ANTIVIOLENZA: CADOM DICE NO ALLA SCHEDATURA DELLE DONNE
Il Cadom (Centro Aiuto Donne Maltrattate), dopo 25 anni di attività, è stato escluso dai finanziamenti regionali per il prossimo semestre.
La Regione Lombardia richiede il codice fiscale e i dati personali delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza. Le volontarie ribadiscono il loro categorico NO ad una richiesta regionale che, per loro, viola la legge sulla privacy e la metodologia dell’accoglienza.
Come rilevato dai Centri Antiviolenza della rete nazionale D.i.Re (Donne in rete), il consenso eventualmente espresso dalle vittime di violenza “potrebbe non essere espresso validamente nel momento in cui una donna è in una condizione di massima vulnerabilità” e bisogno di aiuto.
Il Cadom parla chiaro: le richieste regionali “violano la metodologia dell’accoglienza che prevede il rispetto dell’anonimato e della riservatezza”. In più, “richiedono dati sensibili non necessari per l’analisi statistica del fenomeno prevista dalla normativa nazionale e internazionale” e “rappresentano una forma di ‘violenza economica’ inaccettabile per le donne di un’organizzazione che mette a disposizione del territorio ogni anno 7.900 ore di volontariato per combattere ogni forma di violenza”.
La richiesta di codice fiscale e dati personali è “discriminatoria verso le donne che chiedono aiuto e vogliono rimanere anonime”.
Questo ‘ostacolo’ non fermerà il Cadom che “continuerà la sua attività di accoglienza e supporto delle donne nella sede storica di via Mentana a Monza”.
COSA RISPONDE LA REGIONE LOMBARDIA
Dal canto suo, la Regione Lombardia fa sapere che l’inserimento dei dati nel sistema informatico denominato “Ora” (Osservatorio Regionale Antiviolenza) è necessario per due motivi:
- consentire alla Regione di avere dati statistici sulle donne che chiedono aiuto per mettere in campo politiche mirate a prevenire e ridurre il fenomeno, per meglio intervenire sul problema. L’identità della donna resta, comunque sia, cifrata;
- evitare che più centri rendano lo stesso servizio alla stessa assistita. Il codice fiscale, oltretutto, viene richiesto quando la persona viene presa in carico per iniziare un percorso di uscita dalla violenza.
Dal 2020, i centri antiviolenza che non richiederanno il codice fiscale non potranno più partecipare ai bandi con i quali la Regione assegna i soldi per effettuare i servizi antiviolenza.
La Regione Lombardia ha sospeso l’erogazione dei fondi anche a Cadmi (Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano), primo centro antiviolenza in Italia, attivo dal 1986.
Sono 18 i centri che dicono NO alla schedatura delle donne.
Oltretutto, centri come il Cadmi forniscono già dati qualitativi alle amministrazioni (età, provenienza e condizione sociale di maltrattate e maltrattanti), ma considerano rischioso per le vittime fornire dati identificativi.
OLTRE 100 DONNE OGNI GIORNO SI RIVOLGONO AI CENTRI ANTIVIOLENZA
Da una recente analisi di Uecoop (Unione europea delle cooperative) su dati Istat emerge che, in Italia, ogni giorno oltre 100 donne si rivolgono ai centri antiviolenza.
Il 31,5% di queste donne (circa una su tre) di età compresa fra i 16 ed i 70 anni ha subito una qualche forma di abuso fisico o sessuale.
All’indomani dell’approvazione del ddl Codice Rosso contro la violenza sulle donne, Uecoop ha evidenziato l’importanza dei centri di assistenza che offrono servizi di primo intervento, ascolto ed accoglienza. coinvolgendo forze dell’ordine, aziende sanitarie, enti locali. Forniscono orientamento, supporto legale e psicologico, collaborazione nella ricerca di una nuova sistemazione per allontanarsi subito da una condizione di violenza.
Negli ultimi 5 anni le case rifugio sono salite a 228, i centri antiviolenza a 285: la loro attività di assistenza in prima linea affronta un fenomeno che riguarda oltre 6 milioni e mezzo di donne.
IL REPORT DI ACTIONAID SUI CENTRI ANTIVIOLENZA IN ITALIA: TRASPARENZA DELLE REGIONI
In Italia, la situazione non sta migliorando, tutto il contrario.
Nel 2018, i femminicidi sono saliti a 37,6% rispetto al 2017 (34,8%).
Tra il 2012 e il 2017, sono state uccise 774 donne, una media di circa 150 all’anno. Ciò significa che quasi ogni due giorni una donna viene uccisa.
Nel frattempo, la situazione dei centri antiviolenza in Italia continua a preoccupare con case rifugio che soffrono di gravi carenze strutturali a causa di una cattiva erogazione dei fondi senza contare che, spesso, la loro attività viene ostacolata da Regioni e Comuni.
Secondo i dati risultanti dal report “Trasparenza e accountability. I fondi nazionali antiviolenza” di ActionAid, a fine ottobre 2018 è stato erogato soltanto il 35,9% dei fondi nazionali per il triennio 2015-2017 e il 25,9% dei fondi regionali.
Ricordiamo che il Piano adottato il 7 luglio 2015 è diventato operativo l’8 marzo 2016 e prevede lo stanziamento di 54,5 milioni di euro (di cui circa 12 destinati ai centri antiviolenza) più 30,8 milioni per le Regioni.
La valutazione sulla trasparenza delle singole Regioni effettuata da ActionAid assegnando un punteggio da 0 a 29 (basato su trasparenza formale e nei contenuti) ha dato questi risultati: le Marche (23 punti) rappresentano la Regione più virtuosa, seguita da Piemonte (20 punti) e Puglia (19 punti). Ultima in classifica è la Basilicata, per la quale è stato impossibile reperire documentazioni.
In generale, i fondi arrivano con grandi ritardi, non raggiungono quasi mai la cifra complessiva richiesta, spesso vengono assegnati in modo poco trasparente.
Ad esempio, riguardo all’ultimo bando da 12 milioni, 175 mila euro sono stati destinati alla Nazionale cantanti che è la stessa cifra destinata a D.i.Re, la principale associazione che riunisce i centri antiviolenza in Italia. Circa 1,2 milioni sono andati ad istituti religiosi.
LA GESTIONE DEI FONDI
Se, da una parte, l’intesa Stato/Regioni del 2014 stabilisce determinati criteri per la definizione dei centri antiviolenza, dall’altra, i bandi delle Regioni per la richiesta di fondi sono aperti a chiunque.
Le istituzioni non verificano la documentazione o si accontentano dell’autocertificazione. Di conseguenza, può aggiudicarsi il denaro anche una struttura che si occupa di povertà o migranti.
I 30 milioni previsti dal nuovo Piano Operativo saranno tutti destinati ai centri antiviolenza?
Molti centri attendono ancora i fondi del 2016: l’associazione romana Differenza Donna, che si era aggiudicata 250 mila euro, ha dovuto chiedere un prestito a Banca Etica per far fronte a tutte le spese facendosi carico di interessi che nessuno rimborserà.
La Casa Internazionale delle Donne di Roma è da tempo in lotta con il Comune di Roma che il 17 maggio 2018 ha revocato la convenzione per l’occupazione dello stabile di via della Lungara: ad oggi, non ha ancora ricevuto risposta dal Comune sulla proposta per una transazione da 300 mila euro per appianare il suo debito.
Le Regioni ridistribuiscono i fondi tramite i Comuni: le pubbliche amministrazioni possono gestirli come vogliono.
PIANO OPERATIVO ANTIVIOLENZA: CRITICHE E DUBBI DA PARTE DELLA RETE D.I.RE
Con il nuovo Piano Operativo per l’attuazione del Piano nazionale antiviolenza, il governo destinerà alle Regioni 30 milioni di euro (10 in più rispetto allo scorso anno) per rafforzare la rete territoriale e valorizzare il ruolo strategico dei centri antiviolenza.
Secondo D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), il Piano Operativo rappresenta una dichiarazione di intenti di non chiara attuazione.
Con le sue misure generiche, il Piano è in divenire e da aggiornare, privo di un’indicazione delle risorse dedicate, del soggetto attuatore, dei tempi di realizzazione.
Di seguito, alcuni punti criticati da D.i.Re:
- Le risorse previste per i centri antiviolenza in Italia saranno distribuite prevalentemente alle Regioni a cui sono devolute numerose funzioni strategiche (tra cui vittime minorenni, donne migranti, uomini maltrattanti) che necessiterebbero di un’unica regia nazionale;
- I fondi per i centri antiviolenza e per le case rifugio arriveranno attraverso le Regioni con criteri che possono variare tra una Regione e l’altra o, addirittura, escludere centri di provata esperienza come nel caso della Lombardia che condiziona l’erogazione dei fondi alla comunicazione di dati sensibili delle donne accolte;
- Le funzioni di monitoraggio e controllo affidate ad una task force in collaborazione con la Guardia di Finanza potrebbe contribuire ad una maggior trasparenza se associata ad una valutazione reale della qualità dei servizi erogati, ma persiste tuttora improvvisazione e poca esperienza in numerose realtà che gestiscono servizi molto diversi da un centro antiviolenza;
- Il fondo anti-ostaggio previsto nel Piano conferma l’idea di un governo che opera con una logica assistenziale e che non presta ascolto a chi lavora sul campo da decenni.
CASE CONFISCATE ALLA MAFIA ED ASSEGNATE ALLE VITTIME DI VIOLENZA
Nel mese di giugno, abbiamo appreso la notizia di un bene confiscato alla malavita destinato a diventare, nell’arco di 24 mesi, il “Centro per donne vittime di violenza Astrea”, primo centro antiviolenza sul territorio tirrenico dell’area metropolitana.
Il progetto parte da Bagnara Calabra (Reggio Calabria) grazie ad un finanziamento di 1 milione di euro.
Bagnara Calabra ha partecipato al Pon Legalità 2014/2020 del Ministero dell’Interno posizionandosi al quinto posto di una graduatoria che ha visto accolti solo dodici progetti in tutta la Regione.
Tale progetto sottolinea un fatto importante: non basta sequestrare e confiscare beni alla malavita, bisogna trasformarli in opere sociali urgenti.
Il centro antiviolenza servirà l’utenza di tutto l’ambito territoriale tirrenico e diventerà un luogo in cui la donna possa sentirti tutelata ed avere la forza di ricominciare e riprendersi la propria vita.
Un’iniziativa del genere servirà anche a convincere le donne vittime di violenza a denunciare.
Nel mese di luglio, il Comune di Reggio ha assegnato due appartamenti confiscati alla mafia a due donne vittime di violenza con figli minori. Un’alternativa per garantire ospitalità alle donne costrette a lasciare la propria casa insieme ai figli chiedendo sostegno alle case rifugio che, spesso, non hanno posti disponibili.
IL DEGRADO DELLE CASE FAMIGLIA RACCONTATO DA FANPAGE
Il 29 luglio, Fanpage ha intervistato due donne vittime di violenza che si trovano in una casa famiglia (rispettivamente, di Milano e Caltanissetta) con i loro figli. Il racconto delle due donne è sconcertante.
“Non è come scrivono sulle brochure, qui non si svolge nessun percorso, siamo semplicemente bloccate in una stanza con i nostri figli. Ci danno da mangiare cibi scaduti e ci chiedono di comprarci tutto da sole. Eppure percepiscono fino a 100 euro giornalieri per ospite”.
Si trovano recluse a convivere con tossicodipendenti e pazienti psichiatriche.
I loro bambini crescono in condizioni di degrado in queste case famiglia.
La casa famiglia non è, precisamente, il centro antiviolenza con disponibilità di una casa rifugio.
E’ necessario gestire la violenza sulle donne (specie con figli minori) in modo del tutto differente da migranti, tossicodipendenti, pazienti psichiatrici. E, soprattutto, non si devono gestire dei fondi ospitando donne e madri vittime di violenza nel totale degrado.
Il Piano Operativo prevede un fondo anti-ostaggio destinato alle vittime di violenza che vogliono temporaneamente allontanarsi da casa senza essere costrette ad andare in una casa rifugio o, peggio ancora, in una casa famiglia come quella raccontata a Fanpage dalle due donne vittime di violenza.
Oltre ai fondi, ciò che serve è una gestione trasparente e ordinata, interesse sociale, umanità che vada oltre le mere contabilizzazioni.
Francesco Ciano