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VIOLENZA SULLE DONNE, STALKING E FEMMINICIDIO: LA RESPONSABILITÀ DEL GIUDICE
Tante, troppe volte abbiamo sottolineato l’importanza di un intervento rapido da parte delle forze dell’ordine e dei magistrati per un’azione tempestiva ed efficace contro i casi di violenza sulle donne, stalking, molestie e aggressioni per scongiurare in tutti i modi il gesto estremo del femminicidio.
Quante volte si legge di denunce da parte di donne vittime di violenza domestica (e non) rimaste inascoltate o impunite o punite con condanne ridicole?
Spesso, non si tratta soltanto di burocrazia lenta ma di qualcosa di peggio. Qualcosa che, attraverso la sentenza 20335/2018 del 17 luglio scorso, la Corte di Cassazione ha voluto evidenziare e confermare: la responsabilità dei giudici che non si attivano adeguatamente contro molestatori violenti.
Cosa ha stabilito la suddetta sentenza della Cassazione nei confronti di magistrati poco ‘sensibili’ e ‘diligenti’ che non intervengono attivamente e tempestivamente alle richieste di aiuto da parte di donne vittime di violenza, stalking, molestie?
Violenza sulla donne e stalking: sentenza 20335/2018 della Cassazione
Con la sentenza 20335/2018 la Corte di Cassazione ha confermato le sanzioni che il Csm (Consiglio Superiore della Magistratura) aveva deciso nei confronti di un giudice, un sostituto procuratore condannato (se condanna si può definire) alla perdita di 2 mesi di anzianità. Perché? Perché non si è attivato adeguatamente in reazione ad un caso di violenza ripetuta su una donna. La violenza subita da una donna che, proprio a causa della denuncia inascoltata e dell’evidente scarsa diligenza del pm, si è trasformata nell’ennesimo femminicidio.
Il Csm ha sanzionato il pubblico ministero in quanto non aveva informato il suo procuratore aggiunto ed il collega cui è stato assegnato il fascicolo del caso. Ha omesso di farlo quando, in realtà, avrebbe dovuto attivarsi, sollecitare l’applicazione di una misura cautelare più grave per contrastare la violenza domestica.
La Cassazione ha, così, messo un punto fermo sulla questione, seppure la punizione del Csm sia davvero poca cosa rispetto alla gravità delle irrimediabili conseguenze. La donna è morta.
La scarsa severità del Csm nei confronti dell’operato dei giudici (al di là della gravità del loro comportamento) è tristemente nota.
Il caso relativo alla sentenza: l’ennesima denuncia inascoltata
A quale caso particolare si riferisce la sentenza 20335/2018 della Cassazione?
E’ la storia di una donna protagonista di un incubo finito male, l’ennesimo caso di violenza sulle donne degenerato in femminicidio.
Nell’arco di quattro mesi, l’omicida ha aggredito per ben 3 volte la vittima, una donna che nonostante le denunce presentate non è stata ascoltata né tutelata.
Il pubblico ministero non ha fatto altro che avvisare l’indagato della chiusura delle indagini preliminari nei suoi confronti. In base alla ricostruzione della sentenza, il pm ha mantenuto un “atteggiamento trascurato e rinunciatario, omettendo di adottare qualunque iniziativa” nei confronti dell’indagato.
La Corte di Cassazione ha confermato un fatto molto grave: il giudice, nonostante i vari episodi di aggressione, non ha sollecitato l’adozione della misura cautelare del carcere in sostituzione degli arresti domiciliari a cui era soggetto l’aggressore.
Il giudice NON PUO’ comportarsi da mero burocrate che applica formalmente la legge. Assolutamente NO, deve attivarsi rapidamente ed efficacemente in difesa di una donna vittima di violenza che rischia la vita.
In sostanza, come ha confermato la Cassazione, il sostituto procuratore ha lasciato la donna alla mercé del convivente e del suo comportamento violento e lesivo. Ha arrecato un ‘danno ingiusto’ alla vittima.
Poteva anche non spettare al pm la decisione di disporre la misura cautelare del carcere, ma il Csm aveva deciso che il pubblico ministero avrebbe potuto e dovuto sollecitarne l’adozione. Dopo varie denunce, 3 aggressioni in 4 mesi, si trattava di un caso grave, evidentemente pericoloso per l’incolumità della vittima. A dimostrarlo è stata la sua morte.
Quale sanzione per il magistrato che viola il ‘dovere di diligenza’?
Questo magistrato ha violato il ‘dovere di diligenza’. E’ fin troppo evidente. Il suo compito non si limitava alla “burocratica osservanza di regole formali”: era tenuto ad attivarsi tempestivamente e adeguatamente alla natura violenta dell’omicida per proteggere la vittima oltre che i valori tutelati dall’ordinamento.
Condividendo le conclusioni della Commissione disciplinare del Csm, la Cassazione ha così respinto il ricorso del sostituto procuratore.
Che genere di sanzione è stata stabilita per questa violazione del ‘dovere di diligenza’ con conseguente femminicidio? Il magistrato è stato sanzionato con la semplice perdita di 2 mesi di anzianità.
Ma non sarà un po’… ‘troppo’?
“Ridicolo” è tutto quello che ci viene da commentare. Tutto questo dimostra, purtroppo, che in merito alla violenza sulle donne, violenza domestica, stalking e molestie violente c’è ancora una lunga, lunghissima strada da percorrere.
Ora, per questo pm, si apre la possibilità di un procedimento di risarcimento previsto dalla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Una possibilità più unica che rara nel nostro Paese.
Responsabilità civile dei magistrati: la legge
Il sostituto procuratore sanzionato dalla Commissione disciplinare del Csm ha violato gli articoli 1 e 2 del dlgs n. 109/2006 relativa ai “Doveri del magistrato”.
“Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni…”.
“Le violazioni dei doveri di cui ai commi 1 e 2 costituiscono illecito disciplinare perseguibile”.
Questo, in breve, viene stabilito nel dlgs n. 109/2006.
Su queste basi legislative il procuratore non avrebbe ascoltato le denunce della vittima e, di conseguenza, non avrebbe impedito l’omicidio di una donna, lasciando che il suo carnefice (dopo 3 violente aggressioni in 4 mesi) restasse agli arresti domiciliari anziché essere trasferito in carcere.
La vittima, malgrado le denunce, non era stata ascoltata. Il procuratore in questione non si è curato affatto “dell’esigenza cautelare espressa dalla P.G.” come ha confermato la Cassazione. Non ha sollecitato l’adozione della misura cautelare in carcere nonostante in quella Procura fosse, oltretutto, presente un pool impegnato a contrastare i casi di violenza domestica.
Resta da capire in che modo un giudice ‘sordo’ alle richieste di aiuto ed alle denunce nei casi di violenza sulle donne possa ‘riparare’ o ‘risarcire’ la perdita di una vita.
Francesco Ciano