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VIOLENZA DI GENERE: RAPPORTO DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA DEL SENATO SULLA REALTÀ GIUDIZIARIA
La Commissione d’inchiesta del Senato presieduta da Valeria Valente ha approvato il Rapporto sulla violenza di genere il 17 giugno presentandolo il 15 luglio. Si tratta di un’indagine approfondita effettuata dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio nelle Procure e nei Tribunali di tutta Italia. Per esteso, si tratta del “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul femminicidio.
Il dato che prevale su tutti gli altri è questo: 9 Procure su 10 in Italia trascurano il fenomeno. Peggio: la violenza sulle donne è invisibile per i tribunali civili. La realtà nei tribunali italiani è peggiore di quanto ci si potrebbe attendere.
LA VIOLENZA DI GENERE E’ ANCORA UNA SCONOSCIUTA PER LA GIUSTIZIA ITALIANA.
Lo scriviamo a caratteri cubitali, è un dato assurdo e lo ripetiamo per tentare di convincerci che questo dato sia reale. Certo che lo è.
Nel giro di 3 anni, nella magistratura italiana sono stati organizzati 6 corsi di aggiornamento sulla violenza di genere, perlopiù frequentati da donne. In 3 anni, soltanto lo 0,4% degli avvocati ha partecipato ad eventi di formazione.
La grave lacuna è quella di sempre: mancano pool specializzati, la formazione di magistrati ed avvocati è bassa.
Nei processi civili i maltrattamenti si riducono a conflitti familiari.
RAPPORTO SULLA VIOLENZA DI GENERE: CHI DOVREBBE RICONOSCERE LA VIOLENZA SE NON LA GIUSTIZIA?
Se la Giustizia italiana non riconosce la violenza di genere chi dovrebbe farlo?
L’obiettivo dell’indagine effettuata dalla Commissione d’inchiesta del Senato è comprendere in che modo siano trattati i casi di violenza domestica dalle diverse figure del sistema giudiziario. Per scavare nella realtà, sono stati utilizzati e somministrati appositi questionari a tribunali ordinari, di sorveglianza, procure, Csm, consiglio nazionale forense, Scuola superiore della magistratura, ordine degli psicologi. E’ stato esaminato, in particolare, il triennio 2016-2018 da cui sono emerse, da una parte, buone pratiche, dall’altra, tante lacune.
Il Rapporto evidenzia: serve molta più formazione e specializzazione per individuare, riconoscere ed affrontare efficacemente la violenza sulle donne. E’ impossibile sanzionare, prevenire escalation e sostenere le vittime di violenza che denunciano senza essere in grado di riconoscere la violenza.
L’indagine della Commissione d’inchiesta sul femminicidio pone domande precise, cerca e trova le risposte.
Come combattere la violenza contro le donne se in ambito giudiziario non viene riconosciuta, se resta invisibile nelle procure, tribunali, tra avvocati, magistrati, psicologi?
I processi penali contro gli uomini violenti e le cause civili per separazione sono collegati? Oppure separati?
I consulenti di parte sono formati, specializzati?
Per ognuna di queste domande, purtroppo, la risposta è NO.
Ad oggi, nonostante le campagne di sensibilizzazione e il Codice Rosso, la violenza di genere in ambito civile e nelle aule di giustizia non viene individuata, è sottovalutata, anzi ignorata, letta spesso come conflitto familiare. Niente più di un bisticcio di coppia.
TUTELA DELLE DONNE NON GARANTITA: SCARSA FORMAZIONE E SPECIALIZZAZIONE DEGLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Il Rapporto di 36 pagine parla chiaro: le Procure sono poco preparate in tema di violenza di genere. I diritti delle donne sono spesso disattesi, la tutela delle donne vittime di violenza e maltrattamenti non è garantita allo stesso modo in tutta Italia.
In larga parte, resta ancora disattesa la Convenzione di Istanbul, che prescrive di concretizzare il diritto delle vittime alla protezione.
Le leggi in Italia sono valide per contrastare il fenomeno maschile della violenza sulle donne, ma bisogna interpretarle ed attuarle in modo adeguato. La tutela delle vittime di violenza di genere si concretizza appieno nelle indagini e nelle aule dei tribunali. Dipende dalla formazione degli addetti ai lavori che, in molti casi, risulta essere carente.
Una donna non può ricevere tutela ed assistenza se si trova di fronte a magistrati che, non per loro colpa, si dimostrano non adeguatamente formati. Una procura con all’interno un pool specializzato in violenza di genere o tutela delle fasce deboli può garantire tutela.
Il Rapporto si focalizza su questo aspetto: il gap tra legge e la sua attuazione attraverso figure specializzate è grave, da colmare subito. E’ necessario assicurare un livello adeguato di formazione e specializzazione di tutti gli operatori di giustizia incaricati di gestire una materia tanto delicata e complessa quanto sottovalutata.
Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, presentando il Rapporto ha voluto sottolineare che “la vera scommessa è interpretare correttamente le norme. Per farlo, c’è bisogno di una maggiore formazione e specializzazione degli operatori di giustizia, dai pm ai giudici, agli avvocati, agli psicologi incaricati di effettuare consulenze tecniche d’ufficio su cui spesso si basano le sentenze”.
RAPPORTO VIOLENZA DI GENERE DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA: I DATI
Il concetto è ormai chiaro. Chi dovrebbe garantire tutela alle donne vittime di violenza necessita di formazione e specializzazione.
Vediamo quali sono i dati emersi nel Rapporto della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. Dati che dimostrano quanto sia carente la specializzazione degli operatori di giustizia a tutti i livelli.
Nel 10% delle procure italiane non ci sono magistrati specializzati nei reati di violenza contro le donne, il che significa che i procedimenti relativi a questi reati vengono assegnati a tutti i magistrati indistintamente. Questo problema emerge soprattutto nelle procure di piccole dimensioni.
Soltanto nel 12,3% delle procure esiste un pool specializzato esclusivamente nei reati contro le donne ma non si esclude che i fascicoli per violenze o maltrattamenti siano assegnati ad altri giudici. Ne consegue mancato riconoscimento di una materia complessa, inadeguatezza ed inefficienza della risposta giudiziaria, mancanza di tempestività degli interventi, aumento del carico di lavoro col rischio di una tendenza a non voler trattare i casi.
Nel 77,5% degli uffici requirenti, c’è un gruppo di pm che si occupa di violenza di genere. In queste procure, un gruppo di magistrati specializzati tratta la materia della violenza contro le donne ma lo fa insieme ad altre materie legate ai soggetti deboli o vulnerabili.
Il problema della scarsa formazione e specializzazione non si limita alle procure. E’ presente anche tra i consulenti tecnici che rivestono un ruolo significativo per i reati di genere. Le CTU (Consulenze tecniche d’ufficio) sono chiamate a decidere spesso sulle capacità genitoriali: vengono affidati a figure non specializzate in violenza di genere.
Lo stesso vale per gli avvocati e gli psicologi.
I TRIBUNALI CIVILI NON RICONOSCONO LA VIOLENZA DOMESTICA, NESSUN DIALOGO TRA CIVILE E PENALE
In 3 anni, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato soltanto 6 corsi di aggiornamento sul tema, principalmente frequentati da donne.
Esiste un problema significativo e preoccupante in Italia nei giudizi civili.
La violenza domestica associata a divorzi e separazioni spesso non viene affatto riconosciuta. Perché? I procedimenti civili e penali per violenza e maltrattamenti procedono senza scambi di informazione. Tribunale civile e penale non dialogano tra loro: questo grave problema incide negativamente sulla tutela di donne e minori nei casi di violenza domestica, tanto che le donne vittime di abusi si vedono portare via i figli minori dalla forza pubblica a causa di consulenze tecniche di ufficio che non riconoscono e non sanno leggere la violenza domestica. Nei tribunali civili la violenza domestica e di genere è invisibile ed è una situazione ancora più grave di quella riscontrata nelle procure.
Non riconoscendo la violenza, non viene applicata la Convenzione di Istanbul, le sue norme che raccomandano la messa in sicurezza dei minori del padre violento.
Il Rapporto è una premessa a ciò che sarà l’indagine sulla vittimizzazione secondaria e sull’alienazione parentale. Valeria Valente ci tiene a precisare che il principio di bigenitorialità è da escludere quando ci troviamo di fronte a casi di violenza.
Gli esempi virtuosi ci sono nel nostro Paese ma, in linea generale, sulla violenza di genere nelle aule dei tribunali bisogna fare di più. I due elementi chiave sono collaborazione e adeguata specializzazione senza le quali sarà impossibile progredire. Lo riconosce anche David Ermini, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura che ha anticipato la necessità di implementare modelli organizzativi adeguati e pratiche efficienti.
LA RICERCA DI D.I.RE PUBBLICATA PARALLELAMENTE AL RAPPORTO DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA
Il 15 luglio, mentre la Commissione d’inchiesta del Senato presentava il “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria”, D.i.Re pubblicava i risultati della sua ricerca intitolata “Il (non) riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i minorenni” curata dalle avvocate Titti Carrano ed Elena Biaggioni.
La denuncia è la stessa: la Convenzione di Istanbul, di fatto, sembra sconosciuta. Non viene applicata riguardo alle decisioni sull’affidamento dei figli. Predomina il ruolo delle CTU e la vittimizzazione secondaria nei tribunali civili e per i minorenni delle donne che hanno subito violenza.
Vediamo i dati salienti emersi dalla ricerca di Donne in Rete Contro la Violenza:
– la violenza subita dalle donne e quella assistita dai minori non viene riconosciuta nei tribunali civili e per i minorenni;
– ancora oggi, per i tribunali un uomo maltrattante può essere un buon genitore, indipendentemente dalle condotte violente nei confronti della madre. Si tende a salvaguardare il rapporto padre/figlio;
– 8 bambini su 10 vengono affidati anche al padre maltrattante (affidamento condiviso: 88,9% dei casi nei tribunali ordinari, 51,9% dei casi nei tribunali per i minorenni);
– nell’83% dei casi i quesiti a cui le CTU devono rispondere sono standardizzati, non definiti in base alle singole vicende. Nel 94% dei casi non si pongono domande sulla violenza subita o assistita. La violenza viene ritenuta un conflitto tra genitori. Le CTU svolgono un ruolo determinante: le sentenze sono scritte sulla base delle CTU i cui suggerimenti non sono sottoposte ad alcun giudizio critico;
– il 74,1% delle avvocate ammette che la PAS (sindrome da alienazione parentale o sindrome della madre malevola) è citata nelle relazioni delle CTU. Ricordiamo che a maggio 2021 l’ordinanza n. 13217/21 della Suprema Corte di Cassazione ha definito infondata una teoria contestata dalla comunità scientifica che, però, spesso viene utilizzata nei tribunali contro donne e bambini nei casi di violenza domestica;
– manca la formazione nei tribunali: giudici ed avvocati hanno difficoltà a riconoscere il dramma dei femminicidi e della violenza, come pure psicologi ed assistenti sociali;
– la mediazione familiare nei casi di separazione e affidamento che interessano donne vittime di violenza è vietata dalla Convenzione di Istanbul. Di fatto, però, in Italia il tribunale ordinario (come pure il servizio sociale) invita i genitori alla mediazione familiare. Questa prassi viola l’art. 48 della Convenzione di Istanbul generando una vittimizzazione secondaria.